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Lavorare in rapporti di tensione 2:
L’indirizzamento e il paradosso del riconoscimento

«Come ogni progetto sociale, il progetto di riconoscimento di per sé, ma anche i singoli progetti concreti di riconoscimento vanno intesi nei modi specifici in cui si rapportano a sistemi di potere. Non appena il riconoscimento sociale diventa concreto come rivendicazione o progetto, esclude.» (Mecheril 2000)

Come descritto nel testo d’approfondimento del capitolo 1, una delle motivazioni storiche per la mediazione culturale è la rivendicazione dell’accessibilità delle arti come bene comune a tutti i membri di una società. Negli ultimi decenni, è aumentata la pressione sulle istituzioni culturali finanziate con fondi pubblici affinché producano risultati in termini di numero di visitatori e composizione plurale del pubblico. Parallelamente, è in aumento la concorrenza con altre offerte del settore del tempo libero e della formazione. Tali fattori sono tra l’altro all’origine del fatto che le istituzioni culturali – anche quelle per le quali l’ipotesi di una democratizzazione delle arti non è necessariamente prioritaria – sviluppano un  orientamento in funzione dei visitatori e cercano, tramite offerte di mediazione per destinatari specifici, di ampliare il proprio pubblico. Ci si rivolge così a gruppi sociali che non fanno parte del pubblico tradizionale delle istituzioni e per i quali si presuppone che necessitino di un invito attivo. Si tratta di parti della popolazione che dispongono di un  capitale culturale ed economico relativamente ridotto e che quindi, da una posizione privilegiata, sono considerate «svantaggiate» o «a basso livello d’istruzione».

relativamente ridotto e che quindi, da una posizione privilegiata, sono considerate «svantaggiate» o «a basso livello d’istruzione». ( Mecheril 2000). Da un lato, almeno a prima vista, l’invito avviene nell’intento di creare o perlomeno dischiudere la possibilità della parità. D’altra parte, l’indirizzamento presuppone un’identificazione e quindi una determinazione dei destinatari come altri, appunto come non uguali. Le identificazioni effettuate non sono né casuali né neutrali, ma caratterizzate dalle prospettive e dagli interessi degli invitanti. Non hanno solo la funzione di produrre alterità, ma anche di confermare il proprio come norma da perseguire. Con la designazione di «a basso livello d’istruzione» per esempio si pone la questione della concezione di istruzione che consente di misurare il livello della stessa in determinate persone. Il termine è usato nel dibattito sull’utilizzazione della cultura e intende (solitamente implicitamente) la carenza d’affinità con il canone borghese riconosciuto d’istruzione.1 Il termine «a basso livello d’istruzione» è quindi impiegato come designazione d’alterità da coloro che partono dal presupposto che la propria istruzione sia adatta anche per gli altri. Da questo punto di vista, l’«uguaglianza» perseguita appare intendere, nel contesto di questo e di molti altri indirizzamenti, meno la parità quanto piuttosto il diritto (o l’obbligo?), di assimilarsi a coloro che esprimono l’invito. Nella discussione concernente l’accesso al mercato del lavoro il termine «a basso livello d’istruzione» intende la mancanza di una formazione certificata e di diplomi scolastici. Lo studioso della formazione Erich Ribolits avverte per contro che «formazione» non deve essere intesa come compatibilità con le esigenze del mercato del lavoro e propone di intendere invece con questo termine «l’abilitazione […] ad affermarsi contro i vincoli sistemici della società risultanti dagli attuali rapporti di potere». Le persone istruite in tal modo «si opporrebbero a un orientamento totalitario della vita in base alla massima performance nel lavoro e nei consumi» e «non considererebbero la natura solo come oggetto di sfruttamento e le altre persone solo come concorrenti» ( Ribolits 2011). Da un lato, afferma Ribolits, in questa prospettiva gran parte della popolazione andrebbe considerata «a basso livello di istruzione». D’altra parte, questi atteggiamenti si troverebbero in disparati strati della popolazione e non presenterebbero alcun nesso causale né con elevati livelli di formazione accademica o professionale né con concezioni di cultura borghesi. Con un siffatto concetto di formazione si potrebbe eventualmente addirittura interpretare il sapere e il saper fare di persone con scarso capitale culturale ed economico (per es. una capacità così rafforzata di improvvisazione e sovversione) come caratteristiche di un’élite colta.

Mentre il concetto di «a basso livello di istruzione» è usato spesso per l’identificazione, ma mai esplicitamente per rivolgersi ai gruppi mirati, perché difficilmente qualcuno lo riterrebbe un giudizio positivo, questo non vale per la locuzione usata sempre più spesso, ma non per questo meno problematica, di «persone con background migratorio». Nella prima decade del 21° secolo (più precisamente: dall’attentato al World Trade Center a New York l’11 settembre 2001), la questione del posizionamento e dei principi guida delle istituzioni culturali nella  società migratoria è diventata centrale, come risulta dal gran numero di progetti, studi, dossier e conferenze.2 L’indirizzamento effettuato da attori della mediazione culturale – non da ultimo come reazione ai dettami di politica di sostegno – a «persone con background migratorio» manca però completamente l’enorme pluralità e complessità delle costruzioni di identità nelle società d’immigrazione, perché si rivolge prevalentemente a gruppi ben precisi, bollati etnicamente e civicamente come «altri». Concretamente: con le offerte di mediazione culturale non si tratta di coinvolgere nella vita artistica  espatriati benestanti, ma per l’appunto persone identificate come aventi «un basso livello d’istruzione» e «un background migratorio». Mecheril e altre autrici e autori evidenziano che questa forma d’identificazione corrisponde a una culturalizzazione di problematiche strutturali e sociali. Gli effetti di diseguaglianza sociale, giuridica e politica causati dalle strutture della  società maggioritaria non sono tematizzate; invece il principale modello esplicativo diventa proprio la differenza culturale degli stessi invitati precedentemente stabilita, per la loro assenza dalle istituzioni. Nessuna meraviglia, quindi, che presso i destinatari si desti una crescente resistenza all’indirizzamento come «Mimimi» (Mysorekar 2007). Nell’autunno del 2011, la  Kulturinitative Tirol ha promosso ad esempio un workshop sul tema «antirazzismo e lavoro culturale»:3

«Nel frattempo, nei contesti ‹critici›,ovvero antirazzisti, c’è un maggiore o minore consenso in merito al fatto che i dibattiti pubblici sulla migrazione dovrebbero spostarsi dai migranti ai problemi sociali: si tratta, cioè, di parlare non di migranti «poco acculturati», bensì della miseria e delle strutture razziste del sistema formativo; non di migranti che approfittano del nostro sistema sociale, bensì di meccanismi a effetto emarginativo ecc. Inoltre, il dibattito sulla migrazione si è spostato molto sui migranti provenienti da paesi islamici: se fino a qualche anno fa si parlava ancora di migranti con genitori o nonni turchi, oggi si tratta di migranti musulmane_i.»

Domande a partire dal presupposto che il lavoro culturale crea discorso:

Oltre a queste domande, il workshop affronterà anche le seguenti questioni:

Inoltre, nel 2012 è stata promossa una petizione dal titolo  Stop al falso discorso del background migratorio. Raramente presso le istituzioni invitanti sorge il pensiero, rispettivamente nasce la disponibilità di creare posto per i destinatari anche sul piano strutturale, a livello di programmazione e di attività professionale. Non solo in Svizzera le posizioni determinanti nelle istituzioni culturali sono occupate quasi esclusivamente da membri della maggioranza  bianca.4 A questo punto emerge un’altra dimensione del paradosso: da un lato, mediante l’indirizzamento all’utenza si crea l’«altro», manifestando così la diseguaglianza. D’altra parte, è possibile cambiare le esistenti disparità solo se si procede a un’attiva inversione di rotta lungo queste categorie di diseguaglianza. Con riferimento a Simone de Beauvoir,5 Mecheril (2000) sottolinea che un trattamento utile del paradosso del riconoscimento non possa consistere nel fare finta che non vi siano differenze. Una rinuncia alle categorie alimenta il mantenimento della discriminazione esattamente come la loro determinazione. Oltre a ciò, sarebbe da rispettare l’esigenza delle persone di differenziarsi e di attribuirsi appartenenze senza però ridurle a queste attribuzioni. Questo non da ultimo perché nelle autoattribuzioni identitarie può trattarsi di una forma di autoconservazione psichica e fisica ai sensi di un  essenzialismo strategico (Spivak 1988). Ma anche perché le offerte d’identificazione sono prodotte dalla società nel suo complesso: gli attori culturali migranti si trovano confrontati con l’aspettativa di riferirsi nel proprio lavoro artistico alla loro origine ( Terkessidis 2011). Il riferimento alle «origini» è la più frequente e inevitabile possibilità di attribuzione sottoposta dalla società maggioritaria. I  people of colour devono rispondere per tutta la vita alla domanda sulla loro provenienza, indipendentemente dal fatto che lo percepiscano come un gentile interessamento alla loro persona o come offensivo e molesto. Un semplice «dalla Svizzera», «da Berna» o «dalla mamma» non basta quasi mai a placare la curiosità ( Winter Sayilir 2011;  Kilomba 2006).

Fa parte delle caratteristiche di un paradosso il fatto che non gli si possa sfuggire. Ogni tentativo di equità d’accesso in campo culturale, ogni tentativo pedagogico di combattere la minorizzazione, la discriminazione e l’emarginazione, si intrappola necessariamente in contraddizioni. Nondimeno, esistono metodi più interessanti e informati (più attuali, più adeguati) per affrontare queste contraddizioni accanto ad altre. Mecheril propone la «riflessività comunicativa» come atteggiamento professionale per l’agire nel paradosso:

«L’agire professionale e le strutture vanno interrogati se contribuiscono a un’esclusione dell’altro e/o a una generazione riproduttiva dell’altro. […] La riflessività comunicativa – come mezzo in cui può svilupparsi una pedagogia del riconoscimento […] intende inoltre che la riflessione mirante al cambiamento sulle condizioni di impedimento e di produzione dell’altro dovrebbe designare un processo comunicativo che […] dovrebbe associare gli altri.» (Mecheril 2000, p.11).

Non si tratta quindi solo di un trattamento riflessivo dei propri concetti, delle proprie strutture e modalità d’azione, ma di una riflessione e di un’azione comune con le_i rispettive_i destinatarie_i. Cosa significa questo approccio per le politiche di invito nella mediazione culturale? Se non hanno come unico obiettivo la generazione di maggiori cifre di frequenza (lasciando la cultura e le sue istituzioni possibilmente immutate), ma allorquando si tratta dichiaratamente della creazione di equità d’accesso? In primo luogo, appare evidente che la riflessività comunicativa non è praticabile con un solo indirizzamento al gruppo mirato ideato dalla ricerca di mercato. Se la riflessione e la collaborazione con le destinatarie e i destinatari sono una condizione di base per la produzione di equità d’accesso in campo artistico, non è più sufficiente raccogliere conoscenze empiriche su un gruppo predefinito per progettare su questa base offerte per quel dato gruppo. A queste condizioni, le fruitrici e i fruitori mirati non sono più solo potenziali consumatrici e consumatori di un’offerta culturale, ma partner in un processo di trasformazione da costruire insieme e che non lascia immacolata l’identità della_dell’offerente.

Un esempio per un concetto d’invito esteso nella direzione menzionata è il modello proposto dall’Arts Council inglese degli «Arts Ambassadors» ( Arts Council England 2003). Si tratta di rappresentanti di gruppi di popolazione locali che sono di interesse per l’istituzione ai sensi di una pluralizzazione dei propri pubblici. Gli Arts Ambassadors informano da un lato tramite la propaganda a voce in merito alle attività della rispettiva istituzione. Soprattutto però comunicano all’istituzione le prospettive e le esigenze di questi gruppi di interesse. Per le istituzioni culturali si tratta di acquisire conoscenze sugli interessi e le esigenze del relativo gruppo della popolazione mediante l’ausilio di un approccio della ricerca sui consumatori basato sui metodi della ricerca-azione per sviluppare, nel quadro di tale consultazione, corrispondenti offerte. Da parte dell’Arts Council si rileva che il potenziale dell’approccio si dispiega al meglio allorquando il rapporto tra i rappresentanti dell’istituzione e gli Ambassadors si basa su uno scambio reciproco di conoscenze e informazioni parimenti interessato. Gli Arts Ambassadors sono rappresentanti del loro gruppo d’interesse locale, rispettivamente sociale che nel migliore dei casi influenzano la prassi in campo artistico. La forma di cooperazione si concentra molto sulle esigenze del relativo gruppo d’interesse e quindi sui potenziali di cambiamento per l’istituzione: «The ambassador approach requires commitment and can even bring about fundamental changes in the host organisation» (Arts Council 2003, p. 3). L’Arts Council raccomanda la funzione di Ambassadors come rappresentanti dell’istituzione verso l’esterno esplicitamente solo in relazione a un impiego degli Ambassadors, ossia legata a una retribuzione e alla sicurezza sociale garantite dall’istituzione. Una funzionalizzazione di sole forze volontarie per la stabilizzazione e lo sviluppo delle condizioni e delle identità istituzionali esistenti è descritta come non adeguata sotto l’aspetto della reciprocità.

Con questa osservazione si intende prevenire un’ulteriore complicazione frequentemente constatabile, lo sfruttamento del sapere e del saper fare degli «altri» per la conservazione e l’estensione del sapere dell’istituzione culturale in cui la contropartita è costituita unicamente dal plusvalore simbolico che l’istituzione può offrire. Benché il modello degli Ambassadors sia più affine al marketing che alla mediazione, per il suo successo è quindi necessario un aspetto centrale della riflessività pedagogica: la conoscenza del  potere di violazione ( Castro Varela s.d.), di cui un’istituzione culturale o anche solo una mediatrice o un mediatore culturale dispone in virtù del proprio capitale simbolico e un uso responsabile di questo potere. Per evitare il paternalismo, anche qui si ricorre alla riflessività comunicativa: individuare di concerto con i destinatari i rispettivi interessi e stabilire in chiari accordi chi trae quali benefici dalla cooperazione. Inoltre, ricreare costantemente lo spazio – spazio per la «capacità di lasciarsi irritare» (Castro Varela s. d., p. 3) – affinché possa verificarsi quest’intesa e anche l’elaborazione di conflitti. Nella riflessione del potere in questo modello sorge inoltre la questione, come e da chi vengano scelti i rappresentanti di ciascuna comunità, che in quanto Ambassadors costituiscono l’interfaccia con l’istituzione culturale, e quali siano gli effetti sulla collaborazione.

Il descritto paradosso del riconoscimento, che presuppone un’identificazione e quindi una determinazione, permane anche in questo approccio: per individuare un gruppo a cui indirizzarsi per una collaborazione, va effettuata un’attribuzione.

Tramite le forme dell’indirizzamento, un’istituzione culturale può comunicare che affronta attivamente la problematica dell’attribuzione e della determinazione di posizioni identitarie tramite la definizione di gruppi mirati. Ciò inizia già dall’uso o non uso di determinati termini. In tal modo è possibile porre in evidenza che l’istituzione è informata in merito al rischio di  essenzializzazione. Ad esempio, un’offerta indirizzata a «persone con esperienza di vita» si rivolge per principio a tutti coloro che si attribuiscono una tale esperienza e ne risultano eventualmente costellazioni più interessanti rispetto all’esclusiva partecipazione di «persone della terza età». Ancora più in là si spingono i tentativi di indirizzamento che distraggono usuali ordini d’appartenenza mediante l’impiego di categorie inaspettate. Ciò avviene ad esempio invitando potenziali gruppi d’interesse non in base a luoghi comuni demografici (provenienza, età, stato familiare), bensì in base al contenuto della mediazione o dell’offerta, com’è stato il caso per esempio per i progetti di mediazione della documenta 12 a Kassel, dove tra l’altro persone che per professione si occupano della morte sono state invitate a un workshop sul tema della «nuda vita» nell’esposizione (Gülec et al. 2009, p. 111 segg.).

Laddove un’istituzione culturale si ritiene meno produttrice di un’offerta da commercializzare quanto piuttosto attrice partecipante – non solo in campo artistico, ma anche nel proprio contesto locale –, si impongono forme di interlocuzione che vanno oltre un orientamento in funzione dei gruppi mirati e puntano invece all’avviamento di una cooperazione tra l’istituzione e i diversi pubblici. Le domande menzionate sopra del workshop della Tiroler Kulturinitative evidenziano d’altronde come il modo più coerente per affrontare il paradosso dell’indirizzamento rispetto all’esempio del «background migratorio» sia uno spostamento di prospettiva dall’«alterità migratoria» alle istituzioni culturali stesse come parte della società migratoria, ai loro meccanismi strutturali di esclusione, al loro potenziale di trasformazione. E al loro ruolo di attore sociale che solidarizza con le rivendicazioni delle fruitrici e dei fruitori bersaglio anziché aspettarsi da loro che si adattino all’istituzione o anziché darsi un po’ di colore con la pretesa alterità degli invitati.

1 Uno fra tanti esempi d’attualità quando è stato scritto questo testo: «Nel frattempo, alcuni conservatori di lingua tedesca propongono corsi di formazione e perfezionamento in mediazione musicale come preparazione per disparati settori d’intervento per gruppi mirati da giovani ad anziani, da ‹indigeni› a ‹postmigranti› e da ‹colti› a ‹poco acculturati›.» In: KM. Das Monatsmagazin von Kulturmanagement, Network Kultur und Management im Dialog. N.67 Maggio 2012, p.15. Download al sito → http://www.kulturmanagement.net/downloads/magazin/km1205.pdf [25.8.2012] vedi documentazione MFV0211.pdf

2 Alcuni esempi: convegni: «inter.kultur.pädagogik.» Berlino 2003; «Interkulturelle Bildung – Ein Weg zur Integration?» Bonn 2007; «Migration in Museums: Narratives of Diversity in Europe» Berlino 2008; «Stadt – Museum – Migration» Dortmund 2009; «MigrantInnen im Museum» Linz 2009; «Interkultur. Kunstpädagogik Remixed» Norimberga 2012. Ricerca/sviluppo: «Creating Belonging», Zürcher Hochschule der Künste, promosso dal FNS 2008–09; «Migration Design. Codes, Identitäten, Integrationen», Zürcher Hochschule der Künste, promosso dalla CTI 2008 – 2010; «Museums as Places for Intercultural Dialogue», progetto UE 2007–09; «Der Kunstcode – Kunstschulen im Interkulturellen Dialog», Bundesverband der Jugendkunstschulen und Kulturpädagogischen Einrichtungen e.V. (BJKE), promosso dal Bundesministerium für Bildung und Forschung 2005 – 2008, «Museum und Migration: Kinder und Jugendliche mit Migrationshintergrund als Zielgruppe von Museen», Linzer Institut für qualitative Analysen (LIquA), su mandato della città di Linz e del Land Oberösterreich, Abteilung Soziales und Institut für Kunst und Volkskultur 2009 – 2010. Pubblicazioni e dossier tematici: Handreichung zum Schweizerischen Museumstag 2010; KulturKontakt Austria (a c. d.) (2008): hautnah. Beispiele partizipativer Kunstvermittlung im interkulturellen Dialog, Vienna;Vera Allmanritter, Klaus Siebenhaar (a c. d.) (2010): Kultur mit allen! Wie öffentliche deutsche Kultureinrichtungen Migranten als Publikum gewinnen, Berlino: B&S Siebenhaar; Zentrum für Audience Development der FU Berlin (2009): Migranten als Publika von öffentlichen deutschen Kulturinstitutionen – Der aktuelle Status Quo aus Sicht der Angebotsseite; → http://www.geisteswissenschaften.fu-berlin.de/v/zad/news/zadstudie.html [16.4.2012].

3 Il workshop è stato diretto da Vlatka Frketic.

4 Con «appartenenti alla maggioranza» si intendono in questo testo cittadine e cittadini svizzeri indipendentemente dalla regione linguistica.

5 «Respingere le nozioni di eterno femminino, di anima negra, di carattere giudaico non significa negare che vi siano, oggi Ebrei, Negri e donne: questa negazione non ha per gli interessati un significato di libertà ma una fuga dall’autenticità.» (Beauvoir 1968, p. 9)

Bibliografia e link

Il testo si basa in parte sui seguenti contributi già pubblicati:

Altri riferimenti bibliografici:

Links: